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Sunday 18 November 2012

Quale riforma del lavoro per l'Italia?

di Francesco Sinopoli

La politica sul lavoro del Governo Monti è fortemente influenzata dall'apparato teorico concettuale contenuto nel Rapporto Ocse del 1994, successivamente acquisito dal Fondo Monetario Internazionale e poi dalla Bce anche nella famosa lettera all'Italia inviata nell'agosto 2011.

Secondo questa impostazione solo un mercato del lavoro perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche macroeconomiche, ridurrebbe la disoccupazione.

La traduzione pratica è contenuta in due ricette: libertà di licenziamento e aumento dell'orario di lavoro a parità di salario. In realtà, le valutazioni del rapporto Ocse e degli altri documenti che ne riprendono lo spirito sono di natura politica e ideologica. E' sufficiente a dimostrarlo un dato comparatistico: le migliori esperienze europee quanto a performance occupazionali hanno in comune una elevata imposizione fiscale, impegnative politiche di formazione professionale ed elevati investimenti in R&S; non bassi salari e licenziamenti facili. Gran Bretagna, Svezia e Danimarca , ma anche la Germania negli ultimi anni hanno «regimi di protezione dell'impiego» completamente diversi. Si passa dall'ampia libertà di licenziamento tipica del sistema danese, alle regole di protezione deboli dell'ordinamento britannico fino all'estremo opposto, rappresentato dal sistema svedese di tutela contro il licenziamento ingiustificato, paragonabile al nostro per intensità protettiva. Senza dimenticare il modello tedesco di coderminazione fondato su relazioni industriali ancora relativamente solide nonostante la crisi.

E' in questo contesto che si inserisce la legge 92/2012.

Coerentemente, infatti, durante l'iter parlamentare è stato esplicitamente affermato che il disegno di legge pur centrato sull'allentamento della “rigidità in uscita” avrebbe contenuto misure di “riequilibrio” rappresentate da norme di limitazione del precariato e di tutela contro gli abusi di contratti non standard.

Si deve ricordare che nostro paese la maggior parte delle aziende dove trova applicazione l’art. 18 si colloca in quelle aree geografiche dove registriamo livelli occupazionali pari alle migliori performance europee e dove si producono i beni a più alto valore aggiunto, quelli che maggiormente esportiamo. In queste aziende, non a caso forse, il livelli di precarietà si sono mantenuti negli anni su tassi fisiologici.

Il governo ha comunque deciso di indebolire fortemente il diritto ad essere reintegrati nel posto di lavoro nel caso di un licenziamento illegittimo privilegiando l'indennizzo monetario che, peraltro, viene anche ridotto negli importi rispetto alla normativa pre "Fornero".

In particolare il giudice può disporre il reintegro solo nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ragioni economiche e organizzative). Al giudice viene riconosciuto un ampio potere discrezionale anche perchè l'uso del verbo potere sembra attribuire una mera facoltà anche in caso di "manifesta insussistenza". Del resto è quanto affermato da Monti in data 8 Aprile 2012 in replica al Wall Street Journal: "Per il motivo economico non è più previsto il reintegro. Solo nel caso in cui il fatto sia considerato manifestamente insussistente il giudice può, e non deve, come chiedevano il PD e certi sindacati decidere per il reintegro".

L'intervento principale assieme a quello sui licenziamenti riguarda i contratti "flessibili".

Non si introduce alcun contratto unico di ingresso (diversamente dagli annunci) e si mantengono le svariate tipologie esistenti operando una manutenzione finalizzata a liberalizzare l'utilizzo del contratto a tempo determinato rendendo più difficile abusare dei contratti a progetto. La “stretta” non riguarda le partite iva che superano un determinato reddito ma, soprattutto, queste misure non sono accompagnate da una estensione del welfare lavoristico per i lavoratori intermittenti che restano fortemente svantaggiati anche sotto il profilo previdenziale.

L'impressione è che il governo piuttosto che concentrarsi sull'emergenza crisi abbia voluto realizzare una operazione di immagine. Cosa serviva davvero in questa fase? Per prima cosa un sistema di sostegno al reddito rivolto anche a coloro che oggi ne sono esclusi: alle lavoratrici e ai lavoratori parasubordinati; a chi presta la sua opera con p.iva e vede una drastica diminuzione del proprio reddito a causa della perdita di gran parte dei suoi committenti; a tutti i lavoratori a tempo determinato che oggi non vi posso accedere. Meccanismi di tipo strettamente contributivo potrebbero non essere capaci di sostenere il fabbisogno di protezione di soggetti altamente esposti al rischio disoccupazione quindi prevedere un progressivo spostamento verso la fiscalità generale attraverso la costituzione di un reddito di base. Allo stesso tempo riformare il sistema pensionistico nel senso vero del termine. L'allungamento generalizzato dell'età pensionabile (fino a 5 anni) non è stato compensato da alcun vero intervento a vantaggio degli intermittenti.

I bassi compensi e buchi contributivi mettono a rischio l'intero sistema previdenziale oltre a garantire al massimo pensioni da 300 euro in media ai lavoratori parasubordinati

Si dovrebbero garantire compensi più alti; contributi figurativi, una ripartizione del carico contributivo anche per i lavoratori indipendenti. In prospettiva un "vero" contratto unico.

La disponibilità «giuridica» dei contratti di lavoro autonomo utilizzati in sostituzione del lavoro dipendente, economicamente convenienti in quanto poco tutelati, a iniziare dai minimi salariali, ha reso possibile una vera e propria fuga non tanto dalla subordinazione, ma dallo statuto «protettivo» del lavoro subordinato. In realtà è la stessa distinzione netta tra lavoro autonomo e lavoro subordinato che oggi non ha senso. Margini potenzialmente crescenti di autonomia esistono in tutti i lavori. Allo stesso modo può accadere che nel lavoro autonomo fuori dall'impresa organizzata la dipendenza economica sia più forte che nel lavoro subordinato. Riscrivere il contratto di lavoro superando l'attuale bipartizione ripartendo dagli studi di Massimo D'Antona.

Articolare i diritti in relazione alla misura dell'integrazione nell'organizzazione del lavoro e allargare gli strumenti di sostegno al reddito nelle fasi di non lavoro attraverso uno strumento di tipo universalistico sostenuto anche dalla fiscalità generale.

Porre al centro del contratto la collaborazione al fine di realizzare un progetto più che l'esecuzione di direttive altrui e il diritto dovere alla formazione e all'autoformazione.

Ma i problemi del lavoro sono soprattutto quelli del nostro sistema produttivo che punta prevalentemente a ridurne il costo. Non esiste legge che possa da sola invertire questa tendenza. Il punto vero è modificare la specializzazione produttiva che oggi purtroppo vede prevalere beni a basso valore tecnologico. Ciò naturalmente ha effetti sulla qualità del lavoro. L'industria senza ricerca e innovazione richiede qualifiche professionali basse, ritiene poco importante il titolo di studio privilegia i contratti precari. Non è un caso infatti che abbiamo un numero di laureati impiegati nel mondo del lavoro tra i più bassi d'Europa per non parlare dei dottori di ricerca. Altro che economia della conoscenza. Senza modificare la specializzazione produttiva concentrandola su beni ad alto valore di conoscenza e senza proseguire nelle innovazioni di processo che hanno caratterizzato anche le nostre produzioni prevalenti negli anni passati ci limiteremo a gestire un progressivo impoverimento.

Lo stato deve concentrarsi sulla domanda di innovazione attraverso la cura delle infrastrutture fondamentali e dei beni comuni, serve che utilizzi gli incentivi alle imprese solo per sostenere l'innovazione su progetti mirati in un contesto di politica industriale. Ciò naturalmente richiede una diversa strategia europea . Il fiscal compact è il primo nemico dello sviluppo. Per concludere.

Le competenze e le conoscenze sono questione centrale dei processi di sviluppo in ogni paese ma nel nostro, per le ragioni sommariamente esposte, più che in altri.

Le politiche di intervento finalizzate a realizzare un nuovo sviluppo non possono quindi prescindere dall'accumulazione di “capitale immateriale” cioè investimenti nelle persone che lavorano all'interno del sistema ricerca e università.

Da qui si deve partire anche per cambiare la struttura occupazionale del nostro Paese.

1 comment:

  1. mi corregga se sbaglio: la morale della favola è che non abbiamo bisogno di una riforma del lavoro, ma di una riforma economica che dia gli incentivi giusti ad investire in innovazione... se così, d'accordo.
    ovviamente, come dice lei, ritoccare lo scempio dei vari contratti che limitano solo il potere contrattuale dei lavoratori ma non aumentano la flessibilità, lo si potrebbe fare subito.
    su art. 18... ma chissenefreg! aboliamolo se fa felice qualcuno. o estendiamolo a tutte le imprese indipendentemente dal numero di addetti. così come è non ha alcun senso.

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