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Tuesday 25 December 2012

Controllo politico delle fondazioni in Italia: una soluzione efficace/efficiente?

di Tommaso Oliviero

Sulle fondazioni bancarie

Le banche sono delle imprese nell’accezione più classica del termine. Sono imprese con un input ed un output specifici: i depositi ed i prestiti, rispettivamente. In altre parole le banche agiscono da intermediari (finanziari) tra l’offerta (i risparmiatori) e la domanda (i debitori). Come tutte le imprese perseguono un obiettivo che è la massimizzazione del profitto. La funzione economica di questo tipo d’imprese è comunque evidente: attraverso tecnologie di selezione e di monitoraggio, le banche decidono quali progetti/investimenti finanziare. Un sistema bancario che funziona correttamente è un sistema che alloca fondi (da credito) a progetti trasparenti e con un alto ritorno economico. Insomma le imprese più produttive. Questo sistema è auspicabile non solo dal punto di vista della banca, ma anche da parte del risparmiatore. Se la banca presta i soldi alle imprese con più alta probabilità di ripagare il debito, minimizza il rischio che i risparmi siano persi. È chiaro anche l’effetto benefico sulla crescita. Puntare su investimenti produttivi è il sale dell’economia; start-up, imprese innovative, etc. possono trovare le condizioni nelle quali costituire e sviluppare le idee vincenti.
Un sistema bancario che non funziona è un sistema in cui, invece, i prestiti vanno alle imprese meno produttive. Questo succede quando c’è poca fiducia, poca trasparenza, o incapacità di selezionare i progetti da parte della banca (per esempio una tecnologia di selezione scadente). Questo sistema rallenta la crescita e scoraggia gli investimenti produttivi. Un sistema bancario inefficiente potrebbe anche essere legato a una scelta del credito basata non sulla massimizzazione del profitto della banca, ma sulla massimizzazione del profitto dei manager. Il manager, potrebbe, infatti, considerare profittevole per se stesso prestare soldi agli amici in cambio di un tornaconto personale. Che cosa succede se il manager è un politico? Potrebbero succedere due cose: 1) il politico è in realtà un agente benevolente. Egli ha a cuore le sorti economiche della comunità di riferimento ed ha come obiettivo la sua crescita economica e, infine, il benessere sociale. Inoltre il politico conosce personalmente la comunità di riferimento e sa selezionare ancor meglio i progetti su cui puntare (cui dar credito e/o fiducia); 2) il politico è un agente al quale interessa essere rieletto e usa la sua posizione di leader per guadagnare. In questo caso, il conflitto d’interessi tra ciò che è giusto per i risparmiatori (implicitamente i proprietari della banca) e ciò che è giusto per se stessi è evidente. Il credito va alle imprese “amiche”. Se va bene, le imprese amiche sono anche le più produttive, e la crescita è preservata. Se va male, allora l’efficienza del sistema è compromessa e le buone idee non trovano sviluppo.

In quali dei due sistemi vive l’Italia? Difficile dirlo con rigore scientifico. Proviamo a ragionare partendo dalle considerazioni che da più parti vengono circa il ruolo delle fondazioni bancarie. Bisogna capire cosa sono, se e come possono influenzare le scelte delle banche attraverso la politica e, infine, quali sono gli effetti di questo sistema sull’economia.

Che cosa sono le fondazioni bancarie? Le fondazioni sono nate all’inizio degli anni 90 a seguito del processo di liberalizzazione del sistema bancario voluto dall’Europa. Negli anni 90 il 50% delle banche erano possedute dallo stato (quindi pubbliche – sugli effetti di tale sistema rimandi il lettore ad un lavoro scientifico di Paolo Sapienza del 2002: The Effects of Government Ownership on Bank Lending). Per preservare l’italianità della proprietà delle banche o per evitare una svendita delle azioni, fu creato un particolare processo di privatizzazione. Le azioni delle nascenti banche private furono acquisite da fondazioni con fini filantropici (quindi non-profit); in seguito queste fondazioni hanno provveduto alla collocazione parziale delle azioni sul mercato. Le fondazioni bancarie in Italia sono attualmente 88. Le fondazioni più grandi in termini di valore delle azioni possedute sono Cariverona, Cariparo, Caritorino, Compagnia di San Paolo, Cariplo, Monte Paschi di Siena. Ognuna di esse promuove delle attività benefiche nella comunità di riferimento, ed ha un coinvolgimento “strategico” di lungo termine in alcune banche. Peccato che il portafoglio degli investimenti di queste fondazioni sia tutt’altro che diversificato. Gli investimenti delle fondazioni sono molto polarizzati in banche specifiche; non è difficile immaginare quali banche. I dati dicono che il 40% delle fondazioni possiede quote di capitale nelle banche di riferimento superiore al 20% del totale delle azioni. Sono per lo più azionisti di maggioranza relativa; detengono quindi il controllo delle banche.

Nonostante il mandato dei membri del consiglio direttivo delle fondazioni sia quello di amministrare il patrimonio e decidere le missioni filantropiche da perseguire, le fondazioni rimangono i principali proprietari delle banche di riferimento ed hanno potere decisionale sulle scelte del management. Il loro impatto sulla gestione è più che indiretto.

Cosa c’entra la politica? In media il 22% dei membri del comitato direttivo è un politico. In alcune fondazioni, come MPS, il presidente del comitato dei membri è nominato dal sindaco di Siena. Il resto è dei membri è nominato tra professori universitari e professionisti locali con il sospetto (legittimo) che la politica rientri direttamente anche in queste nomine.

Quindi, la politica controlla le fondazioni; le fondazioni possiedono quote di controllo nelle banche. Il sillogismo aristotelico è immediato.

L’ultima cosa da dimostrare è se questo effetto sia benefico o malefico per l’economia. Cioè se i politici sono del tipo 1) o 2). Questo rappresenta la cosa più difficile da dimostrare. Non vi è una prova empirica dell’effetto della presenza dei politici sulle fondazioni. Tuttavia, alcune evidenze ci dicono che l’Italia è uno dei paesi industrializzati dove la spesa pubblica è meno produttiva (tempi della giustizia civile, risultati della istruzione obbligatoria, costi e durata delle pratiche amministrative etc.). I recenti scandali che affliggono il mondo politico ci aiutano anche a capire il perché di questa scarsa produttività: una classe politica incompetente e corrotta. Troppo facile sostenere che i nostri politici ricadano nella categoria 2.

In Italia, il buon funzionamento del sistema bancario è fondamentale per l’economia aggregata poiché i prestiti da intermediari finanziari rappresentano la maggiore parte del finanziamento delle imprese. Non possiamo permetterci oltremodo di sopportare il costo sociale di questa inefficienza.

I dati sulle fondazioni sono presi dal report di Mediobanca “Italian Banking Foundations” di A. Filtri e A. Guglielmi.

Tuesday 18 December 2012

Oltre l’austerità: quali proposte per uscire a sinistra dalla crisi?

di Andrea Pisauro, vicecoordinatore SEL UK

Quale alternativa all’austerità? Cosa deve fare un eventuale governo di centrosinistra per uscire dalla crisi senza scaricarne i costi sui ceti popolari?
Il prossimo 14 Dicembre a Londra, il circolo Radio Londra di SEL organizza una giornata di riflessione sulle proposte di politica economica per uscire “da sinistra” dalla crisi.
Alla presenza di Gennaro Migliore, della segreteria nazionale di SEL, e di economisti, ricercatori e studenti, verranno analizzate le principali idee dell’economia “alternativa” alla ricerca di soluzioni utili per fare uscire il paese dal pantano della crisi.

A quattro anni dall’inizio della crisi, tre dal suo “contagio” in Europa e il conseguente avvio della stagione “dell’austerità”, si sta pian piano affermando una consapevolezza diffusa del fatto che le ricette imposte ai paesi dell’area Euro dall’asse conservatore Bruxelles-Francoforte-Berlino non stanno affatto funzionando. Anzi, contribuiscono all’aggravarsi della situazione economica dei paesi periferici della zona Euro dove la disoccupazione continua a crescere e gli effetti della crisi vengono scontati quasi interamente dai ceti popolari.
Questa consapevolezza è arrivata a lambire templi sacri dell’ideologia neoliberista, come il Fondo Monetario Internazionale che arriva a riconoscere il devastante impatto dell’austerità sulla crescita, e riecheggia perfino nelle parole del Berlusconi che rivendica un suo veto sul “Fiscal Compact” ai tempi in cui era Presidente del Consiglio, attaccando Monti e la sua “recessione senza fine”. D’altronde, che il concetto di austerità espansiva (cioè benefica per l’economia) fosse debole sia sul piano teorico sia su quello pratico, era chiaro già da tempo agli economisti che, in Italia, piu’ di due anni fa scrissero una lettera aperta, rimasta inascoltata, che metteva in guardia dai pericoli di deflagrazione della zona Euro e aggravamento della crisi generati dall’austerità e a quelli che più recentemente, nell’ebook “Oltre l’austerità” pubblicato su micromega, hanno abbondamente documentato il fallimento della strategia dei tagli, proponendo una molteplicità di importanti chiavi di lettura alternative.
D’altro canto questo mutamento di prospettiva non si è ancora tradotto in atti concreti se si considera che anche il recente piano di acquisti illimitati dei titoli di stato (OMT), varato a Settembre dalla BCE (il cosiddetto Bazooka) pur permettendo agli spread di Spagna e Italia di respirare un pochino, presenta numerose limitazioni (“forche caudine” per accedere al piano, che implicheranno sottostare a ulteriori pesanti imposizioni di austerità, e sterilizzazione degli acquisti di titoli) che non lasciano presagire nulla di buono per i prossimi mesi e rischiano solo di aver comprato un po’ di tempo.

Del resto, con l’approvazione del Fiscal Compact che subordina le scelte economiche nazionali al dogma del pareggio di bilancio e della riduzione a ritmi esasperati del rapporto debito/PIL, uscire dal tunnel dell’austerità è più facile a dirsi che a farsi, come ha dovuto constatare anche Hollande in Francia e come in generale è dimostrato dalle difficoltà dei partiti socialisti europei nell’offrire un’alternativa concreta ai tagli imposti dalla troika.
Il problema fondamentale è che la risposta alla crisi, che deriva per molti aspetti anche dalla struttura formale dell’unione monetaria e dai vincoli imposti a livello comunitario, non può prescindere da una strategia continentale e da riforme delle istituzioni europee.
Per questo il dibattito, anche e soprattutto a sinistra, si è concentrato su modifiche allo statuto e alla prassi della BCE, per estendere la sua linea di acquisti di titoli governativi oltre i confini stabiliti dai vari programmi d’intervento (Efsf/Esm e ora Omt). Queste proposte, che tentano di introdurre un ruolo per la BCE come “prestatore di ultima istanza” si sono accompagnate all’eterno dibattito sull’emissione di Eurobond che ha tenuto banco per mesi senza mai riuscire a superare il veto di Berlino, e da quello più circoscritto riguardante l’introduzione di Project Bonds legati a singoli progetti di sviluppo, fino alla proposta di usare la Banca Europea per gli Investimenti (EIB) per il lancio di un New Deal europeo che rilanci la crescita tramite gli investimenti.

L’iniezione di liquidità a garanzia del debito e a sostegno della crescita non sono state le uniche proposte di sinistra per superare la crisi. Un altro filone di misure ha riguardato proposte di tassazione delle rendite finanziarie (Tobin Tax) spesso arenatesi in infinite discussioni e sempre infrantesi sul veto britannico a difesa della City. Varie proposte di riforma del sistema bancario sono state avanzate attorno al pilastro della separazione tra banche commerciali e banche d’investimento per salvare le linee di credito all’economia reale dai rischi delle crisi finanziarie.

Più difficile aggredire le cause strutturali degli squilibri macroeconomici interni all’Eurozona. Per un decennio circa si è parlato di rendere più competitivi i paesi periferici, in particolare e non casualmente puntando sulla riduzione del costo del lavoro anziché sulle misure necessarie per accrescere la produttività. Analisi più recenti hanno puntato l’indice contro gli squilibri della bilancia dei pagamenti con l’estero dei paesi della zona dell’euro, come sorgente dei flussi di credito che hanno alimentato le bolle dei debiti pubblici e privati nei paesi della periferia. Proposte interessanti in questo senso hanno riguardato l’introduzione di standard retributivi che, in media in un dato paese, facciano crescere i salari in proporzione alla produttività, in modo da prevenire fenomeni di “dumping sociale” interni all’area dell’euro. Altre proposte hanno riguardato il coordinamento delle politiche macroeconomiche, che dovrebbero essere espansive nei paesi in surplus di bilancia dei pagamenti, e restrittive in quelli in deficit.

Se la strategia di uscita dalla crisi deve essere coordinata a livello europeo, l’Italia è ovviamente un tassello cruciale nel puzzle della costruzione di una politica alternativa all’austerity per superare la crisi, e decisivo sarà il ruolo del prossimo governo, a partire dai primi mesi del suo mandato. L’Italia potrebbe essere il perno decisivo di una coalizione progressista che metta definitivamente all’angolo le pretese egemoniche della Germania mercantilista. La domanda del “che fare?” è dunque di stringente attualità, a maggior ragione in uno scenario politico che vede tuttora come più probabile la prospettiva di un governo di centrosinistra nella prossima legislatura.

Il dibattito delle primarie del centrosinistra, tuttavia, non è ancora stato in grado di dirimere i nodi piu’ pressanti, anche perche’ sulla stessa interpretazione delle cause della crisi, nella coalizione sono presenti vari punti vista, con uno spettro di posizioni identificabili dal livello di “montismo” e dal sostegno ideologico offerto alla strategia dell’austerità.
Addirittura nel dibattito TV nessuno ha fatto menzione della possibilità di rinegoziare il Fiscal Compact e Renzi si è spinto a dire che anche solo parlarne metterebbe il paese in pericolo.
Del resto, il sindaco di Firenze e “l’ala destra” del PD sono più o meno compatti nel sostenere la linea di sacrifici mentre il versante sinistro del fronte bersaniano, guidato dal “socialdemocratico” Fassina, non perde occasione di ribadire la necessità di superare “da sinistra” l’esperienza del governo Monti. Tuttavia anche nella maggioranza bersaniana permangono intatte una serie di ambiguità quando si ribadisce continuamente fedeltà all’impianto degli accordi europei anche quando si usano gli accenti più critici nel giudicare l’ideologia neoliberale delle scelte a livello europeo. Viene inoltre ribadita la necessità di ridurre il debito pubblico, costi quel che costi, rifiutando di considerare l’obiettivo di una sua stabilizzazione e poche parole vengono spese riguardo a politiche industriali di orientamento dello sviluppo, mantenendo alta l’attenzione solo su politiche volte a fronteggiare l’emergenza finanziaria.

La stessa Carta d’intenti che istituisce e definisce i contorni programmatici delle primarie è tutto meno che chiara rispetto a come comportarsi rispetto ai “vincoli esterni” dei trattati europei e del giudizio dei mercati che rischiano di commissariare con grande anticipo qualunque speranza di cambiamento.
La candidatura di Nichi Vendola e più in generale la partecipazione di SEL alla coalizione di centrosinistra offrono un’occasione per quanti vogliano esprimere un’opzione di dissenso radicale dalle politiche recessive imposte a livello europeo e placidamente accettate dal governo dei “tecnici” e da buona parte del PD. Peraltro, la partita per ribaltare l’austerità si gioca tanto in casa, nello spostare più a sinistra l’asse della coalizione, che in trasferta, costruendo a livello europeo un serio gioco di squadra con i partiti socialisti e socialdemocratici per un ribaltamento del retroterra cuturale su cui poggiano le politiche recessive imposte dalla BCE.
Ed è proprio nel rapporto con l’Europa che il centrosinistra italiano sconta i suoi limiti peggiori, con il PD che sfugge non solo formalmente all’adesione al socialismo europeo, laddove la sua analisi della crisi è viziata da ritardi e contraddizioni che ne minano la credibilità in termini di proposta d’alternativa e non contribuiscono a capire quali saranno poi le scelte di fondo di un eventuale governo di centrosinistra.

E’ dunque urgente e necessaria una discussione franca e concreta sulle linee guida della politica economica della coalizione di centrosinistra. Per evitare di perdere anche questa occasione e rimandare la discussione su nodi cruciali a più ristretti consessi di anguste segreterie di partito, occorre uno sforzo ora, anche da parte della società. Con questo spirito, il circolo Radio Londra di Sinistra Ecologia e Libertà sta organizzando per il prossimo 14 dicembre a Londra una giornata di riflessione sulle proposte di politica economica che potrebbero caratterizzare in modo chiaro un’agenda alternativa all’austerity per il prossimo governo di centrosinistra (incrociando le dita). Il dibattito è aperto. Non lasciamolo cadere.

Sunday 18 November 2012

Quale riforma del lavoro per l'Italia?

di Francesco Sinopoli

La politica sul lavoro del Governo Monti è fortemente influenzata dall'apparato teorico concettuale contenuto nel Rapporto Ocse del 1994, successivamente acquisito dal Fondo Monetario Internazionale e poi dalla Bce anche nella famosa lettera all'Italia inviata nell'agosto 2011.

Secondo questa impostazione solo un mercato del lavoro perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche macroeconomiche, ridurrebbe la disoccupazione.

La traduzione pratica è contenuta in due ricette: libertà di licenziamento e aumento dell'orario di lavoro a parità di salario. In realtà, le valutazioni del rapporto Ocse e degli altri documenti che ne riprendono lo spirito sono di natura politica e ideologica. E' sufficiente a dimostrarlo un dato comparatistico: le migliori esperienze europee quanto a performance occupazionali hanno in comune una elevata imposizione fiscale, impegnative politiche di formazione professionale ed elevati investimenti in R&S; non bassi salari e licenziamenti facili. Gran Bretagna, Svezia e Danimarca , ma anche la Germania negli ultimi anni hanno «regimi di protezione dell'impiego» completamente diversi. Si passa dall'ampia libertà di licenziamento tipica del sistema danese, alle regole di protezione deboli dell'ordinamento britannico fino all'estremo opposto, rappresentato dal sistema svedese di tutela contro il licenziamento ingiustificato, paragonabile al nostro per intensità protettiva. Senza dimenticare il modello tedesco di coderminazione fondato su relazioni industriali ancora relativamente solide nonostante la crisi.

E' in questo contesto che si inserisce la legge 92/2012.

Coerentemente, infatti, durante l'iter parlamentare è stato esplicitamente affermato che il disegno di legge pur centrato sull'allentamento della “rigidità in uscita” avrebbe contenuto misure di “riequilibrio” rappresentate da norme di limitazione del precariato e di tutela contro gli abusi di contratti non standard.

Si deve ricordare che nostro paese la maggior parte delle aziende dove trova applicazione l’art. 18 si colloca in quelle aree geografiche dove registriamo livelli occupazionali pari alle migliori performance europee e dove si producono i beni a più alto valore aggiunto, quelli che maggiormente esportiamo. In queste aziende, non a caso forse, il livelli di precarietà si sono mantenuti negli anni su tassi fisiologici.

Il governo ha comunque deciso di indebolire fortemente il diritto ad essere reintegrati nel posto di lavoro nel caso di un licenziamento illegittimo privilegiando l'indennizzo monetario che, peraltro, viene anche ridotto negli importi rispetto alla normativa pre "Fornero".

In particolare il giudice può disporre il reintegro solo nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ragioni economiche e organizzative). Al giudice viene riconosciuto un ampio potere discrezionale anche perchè l'uso del verbo potere sembra attribuire una mera facoltà anche in caso di "manifesta insussistenza". Del resto è quanto affermato da Monti in data 8 Aprile 2012 in replica al Wall Street Journal: "Per il motivo economico non è più previsto il reintegro. Solo nel caso in cui il fatto sia considerato manifestamente insussistente il giudice può, e non deve, come chiedevano il PD e certi sindacati decidere per il reintegro".

L'intervento principale assieme a quello sui licenziamenti riguarda i contratti "flessibili".

Non si introduce alcun contratto unico di ingresso (diversamente dagli annunci) e si mantengono le svariate tipologie esistenti operando una manutenzione finalizzata a liberalizzare l'utilizzo del contratto a tempo determinato rendendo più difficile abusare dei contratti a progetto. La “stretta” non riguarda le partite iva che superano un determinato reddito ma, soprattutto, queste misure non sono accompagnate da una estensione del welfare lavoristico per i lavoratori intermittenti che restano fortemente svantaggiati anche sotto il profilo previdenziale.

L'impressione è che il governo piuttosto che concentrarsi sull'emergenza crisi abbia voluto realizzare una operazione di immagine. Cosa serviva davvero in questa fase? Per prima cosa un sistema di sostegno al reddito rivolto anche a coloro che oggi ne sono esclusi: alle lavoratrici e ai lavoratori parasubordinati; a chi presta la sua opera con p.iva e vede una drastica diminuzione del proprio reddito a causa della perdita di gran parte dei suoi committenti; a tutti i lavoratori a tempo determinato che oggi non vi posso accedere. Meccanismi di tipo strettamente contributivo potrebbero non essere capaci di sostenere il fabbisogno di protezione di soggetti altamente esposti al rischio disoccupazione quindi prevedere un progressivo spostamento verso la fiscalità generale attraverso la costituzione di un reddito di base. Allo stesso tempo riformare il sistema pensionistico nel senso vero del termine. L'allungamento generalizzato dell'età pensionabile (fino a 5 anni) non è stato compensato da alcun vero intervento a vantaggio degli intermittenti.

I bassi compensi e buchi contributivi mettono a rischio l'intero sistema previdenziale oltre a garantire al massimo pensioni da 300 euro in media ai lavoratori parasubordinati

Si dovrebbero garantire compensi più alti; contributi figurativi, una ripartizione del carico contributivo anche per i lavoratori indipendenti. In prospettiva un "vero" contratto unico.

La disponibilità «giuridica» dei contratti di lavoro autonomo utilizzati in sostituzione del lavoro dipendente, economicamente convenienti in quanto poco tutelati, a iniziare dai minimi salariali, ha reso possibile una vera e propria fuga non tanto dalla subordinazione, ma dallo statuto «protettivo» del lavoro subordinato. In realtà è la stessa distinzione netta tra lavoro autonomo e lavoro subordinato che oggi non ha senso. Margini potenzialmente crescenti di autonomia esistono in tutti i lavori. Allo stesso modo può accadere che nel lavoro autonomo fuori dall'impresa organizzata la dipendenza economica sia più forte che nel lavoro subordinato. Riscrivere il contratto di lavoro superando l'attuale bipartizione ripartendo dagli studi di Massimo D'Antona.

Articolare i diritti in relazione alla misura dell'integrazione nell'organizzazione del lavoro e allargare gli strumenti di sostegno al reddito nelle fasi di non lavoro attraverso uno strumento di tipo universalistico sostenuto anche dalla fiscalità generale.

Porre al centro del contratto la collaborazione al fine di realizzare un progetto più che l'esecuzione di direttive altrui e il diritto dovere alla formazione e all'autoformazione.

Ma i problemi del lavoro sono soprattutto quelli del nostro sistema produttivo che punta prevalentemente a ridurne il costo. Non esiste legge che possa da sola invertire questa tendenza. Il punto vero è modificare la specializzazione produttiva che oggi purtroppo vede prevalere beni a basso valore tecnologico. Ciò naturalmente ha effetti sulla qualità del lavoro. L'industria senza ricerca e innovazione richiede qualifiche professionali basse, ritiene poco importante il titolo di studio privilegia i contratti precari. Non è un caso infatti che abbiamo un numero di laureati impiegati nel mondo del lavoro tra i più bassi d'Europa per non parlare dei dottori di ricerca. Altro che economia della conoscenza. Senza modificare la specializzazione produttiva concentrandola su beni ad alto valore di conoscenza e senza proseguire nelle innovazioni di processo che hanno caratterizzato anche le nostre produzioni prevalenti negli anni passati ci limiteremo a gestire un progressivo impoverimento.

Lo stato deve concentrarsi sulla domanda di innovazione attraverso la cura delle infrastrutture fondamentali e dei beni comuni, serve che utilizzi gli incentivi alle imprese solo per sostenere l'innovazione su progetti mirati in un contesto di politica industriale. Ciò naturalmente richiede una diversa strategia europea . Il fiscal compact è il primo nemico dello sviluppo. Per concludere.

Le competenze e le conoscenze sono questione centrale dei processi di sviluppo in ogni paese ma nel nostro, per le ragioni sommariamente esposte, più che in altri.

Le politiche di intervento finalizzate a realizzare un nuovo sviluppo non possono quindi prescindere dall'accumulazione di “capitale immateriale” cioè investimenti nelle persone che lavorano all'interno del sistema ricerca e università.

Da qui si deve partire anche per cambiare la struttura occupazionale del nostro Paese.

Tuesday 23 October 2012

La questione meridionale è anche una questione di sentimenti

di Tommaso Oliviero

Sono napoletano. In realtà sono nato nella provincia a nord-est di Napoli. Vengo da Cardito. Una cittadina dall’imbarazzante immobilismo. Oltre ad essere una città con i suoi riti quotidiani e perpetui, è anche nel bel mezzo di Gomorra (quella di Saviano). In realtà non si conoscono i confini di Gomorra. Non saprei dirvi con precisione quanto ne è dentro e quanto ne è fuori. Ma, in fondo, non fa alcuna differenza. Siamo nella patria della camorra e del problema spazzatura.

Quando mi sono trovato a parlare del libro di Saviano con i miei colleghi, settentrionali o stranieri, ho sempre sviato il discorso. Sinceramente non per vergogna. Non provo alcun imbarazzo a dire di essere napoletano. Non ne sono nemmeno così fiero in fondo. Per me essere di Napoli è come avere i capelli scuri. Non sono mai fondamentalista e lo sono ancor meno parlando di Napoli.

La verità è che non so cosa dire. Credo che i miei colleghi/amici non capirebbero. Come fai a spiegare il tuo sentimento di odi et amo? Come fai a raccontare che ami la città della tua famiglia, del tuo primo amore. È la città della tua squadra del cuore. È la città dei tuoi amici di infanzia. Come fai a raccontare che lì ci vivono tante persone tra le più amabili e oneste che tu abbia mai conosciuto. Allo stesso tempo non puoi non ammettere che Napoli è una città violenta. A Napoli succede che muori ammazzato per errore. Altre volte ti uccidono per una rapina. Succede che la camorra ti chiede il pizzo se cominci una ristrutturazione di casa. Succede che ti rubano il tuo primo motorino. Ed anche il secondo.

Ecco cari amici, succede che non riesco a parlare onestamente della mia città. Non riesco a comunicare, a trasmettere il mio sentimento. È la parte del mio inconscio che più avrebbe bisogno di sedersi su una poltrona da psicoanalista. Succede che c’è una questione meridionale nel mio spirito. Una questione fatta di sentimenti.

A volte i sentimenti si confondono con la ragione. La parte razionale emerge quando cominci a chiederti, se ne vale la pena di tornarci a vivere. A casa tua. Dalla tua famiglia. Dai tuoi amici. Perché sopportare il rischio di essere ammazzato? O peggio, che tuo figlio sia ammazzato per il furto di un motorino?

Succede anche che, nel profondo del tuo cuore, ti chiedi se puoi fare qualcosa. Qualcosa di attivo. Per la tua città. Per te stesso. Per i tuoi sentimenti.

Vedete ragazzi, credo che la mia personale questione meridionale, sia la questione di tanti ragazzi del Sud. Tanti ragazzi che vanno via o che vogliono andare via. O che sono costretti ad andare via (povero Saviano). Non eroi. Semplici cittadini. Sognatori.

Non saprei dirvi perché, ma credo che in fondo, una buona parte della questione meridionale, quella economica, sia correlata ad una questione di sentimenti. Ho paura che quando in tutti noi prevarrà la voglia di scappare, allora si che non ci sarà più futuro per il Sud. Economico, ma non solo. Ho paura, seriamente. Perché, in fondo, credo che in me stia prevalendo proprio quella voglia. Quella di non ritornarci.

Questa riflessione è ispirata dal recente fatto di cronaca che ha visto un mio giovane concittadino vittima di un omicidio. Tra i tanti episodi di cronaca nera che vedono ogni giorno Napoli protagonista, questo mi ha colpito oltremodo. Perché Pasquale Romano è stato ucciso per uno scambio di persona. Si è trovato al posto sbagliato al momento sbagliato. A lui va il mio pensiero.

Sunday 30 September 2012

Le 10 proposte di Fermare il declino

di Tommaso Oliviero.

In un clima politico ed economico quanto mai incerto, il gruppo di professori che curavano il blog “noisefromamerika” ha deciso di varcare il Rubicone e di lanciarsi in un progetto politico nuovo. Lo ha fatto lanciando una iniziativa in rete insieme ad un gruppo di nuovi associati (e/o aderenti), tra cui spicca il giornalista Oscar Giannino. Nome dell’iniziativa: Fermare il declino.

Noise-from-amerika è un blog creato da economisti che lavorano in U.S.; negli ultimi anni hanno ottenuto un crescente successo grazie ad una serie di articoli precisi e pungenti, oltre che un libro-critica sulla politica economica di Tremonti. Siamo convinti che trovare una definizione di economista è difficile persino all’interno di un dipartimento di economia. Cerchiamo di definire il tipo: hanno seriamente studiato, fanno ricerca in maniera rigorosa, e pubblicano su riviste scientifiche di massimo livello. Non Tremonti e Brunetta, ecco.
Oscar Giannino è un noto ed eccentrico giornalista economico. Ha una laurea in legge, fa giornalismo da sempre, ogni mattina sbandiera ai quattro venti il suo motto: “Stato ladro”. Si può definire un serio giornalista economico, più difficilmente un’economista nell’accezione che abbiamo utilizzato prima.

Passare da un blog ad un partito politico è un’esperienza già vista (leggi M5S). Amano definirsi una nuova forza politica, quindi né un partito ma nemmeno un movimento. È chiaro ed esplicito l’intento di prendere le distanze dai vecchi partiti e da Beppe Grillo.
L’aspetto più innovativo è rappresentato dal fatto che Fermare il declino cerca adesioni nel pubblico della rete partendo da 10 proposte per il rilancio dell’economia Italiana. Sono delle proposte che mirano a ridurre il debito pubblico, la pressione fiscale e a risolvere i problemi istituzionali del paese soprattutto nell’ambito della politica economica. Le 10 proposte sono sinceramente tutte molto condivisibili. Sono un insieme di applicazione di noti principi economici uniti ad un’abile semplificazione logica e verbale utile alla divulgazione ”popolare”.

Non ci soffermiamo sulle possibili strategie elettorali che questo gruppo potrebbe prendere, ma vorremmo invece entrare nel merito degli obiettivi di questa forza politica.

Le 10 proposte seppur condivisibili, sono talvolta vaghe. Dietro ogni punto ci sono un mare di punti da chiarire. I leader del movimento lo sanno e probabilmente lavorano nel retroscena per affinare i concetti e gli spunti. Ma soprattutto, i lettori e gli aderenti lo sanno. Ed allora? Perché non essere da subito più precisi? Il motivo potrebbe essere che il lancio di un nuovo soggetto politico rappresenti solo un modo per stimolare la discussione politica in vista delle nuove elezioni. Questo però è lontano dall’obiettivo dichiarato di creare una nuova forza politica. Se si vuole realmente competere sul piano della qualità delle proposte, perché non spiegare meglio l’attuabilità delle proposte? Alcuni esempi. Il tema della lotta all’evasione fiscale. Perché non chiarire con quali strumenti verrà di fatto combattuta l’evasione? Quale tipo di innovazione si propone? Stessa considerazione quando si parla della soluzione dei problemi del mercato del lavoro e dell’istruzione.

La vera forza innovativa di soggetto Fermare il declino potrebbe essere la capacita’ di spiegare in maniera chiara e semplice i meccanismi attraverso i quali si vogliono raggiungere taluni obiettivi, partendo da un dibattito interno per poi divulgarlo. Andare oltre i proclami, spiegare agli elettori quali strumenti si intende utilizzare e quali saranno le ripercussioni sull’economia e la società italiana darebbe un segnale serio e incontrovertibile di una politica nuova.

Il rischio è che le 10 proposte rimangano imitabili proclami elettorali.

Thursday 20 September 2012

Fiscal compact e low-carbon economy

di Stefano F. Verde

In risposta alla crisi dei debiti sovrani, i governi UE, con le eccezioni di Regno Unito e Repubblica Ceca, hanno concordato il Fiscal Compact. Il Trattato dispone l’adozione, preferibilmente nei testi costituzionali, del vincolo del pareggio di bilancio. Tecnicamente, quest’ultimo è da ritenersi rispettato se il deficit strutturale (ovvero al netto degli effetti della congiuntura economica) non supera lo 0,5% del PIL (1% per i Paesi con debito inferiore al 60% del PIL).

La prescrizione di una così ferrea disciplina di bilancio ha suscitato numerose critiche e sempre più spesso, nel dibattito pubblico, viene rimarcata la necessità di conciliare rigore dei conti e stimolo della crescita. In questo contesto, Mario Monti e Mario Draghi, rispettivamente Presidenti del Consiglio e della BCE, recentemente si sono espressi a favore di un rilancio degli investimenti pubblici. Lo scorso 9 maggio, Monti ha proposto di non considerare la spesa in investimenti ai fini del suddetto pareggio di bilancio. In altre parole, di permettere che lo Stato si indebiti per finanziare la spesa in investimenti. Il 24 maggio, Draghi ha suggerito di accompagnare il Fiscal Compact con un “Growth Compact”. Questo poggerebbe su tre pilastri, uno dei quali sarebbe appunto il rilancio degli investimenti pubblici in infrastrutture, capitale umano e ricerca e innovazione. “Vanno in questo senso le proposte di rafforzamento della Banca Europea per gli Investimenti e di riprogrammazione dei Fondi strutturali dell’Unione”, ha aggiunto Draghi.

Gli investimenti, pubblici o privati, sono una precondizione dello sviluppo economico. Il Fiscal Compact, così com’è, concede poco spazio ai primi e ‘’confida’’ molto nei secondi. La questione che pongo è la seguente: può un tale approccio alla politica fiscale ostacolare il raggiungimento di imprescindibili obiettivi di lungo periodo della politica climatica? Ridurre le emissioni di gas serra dell’80-95% entro il 2050, come l’UE si propone di fare, implica un radicale cambiamento del sistema produttivo. E’ pensabile che questo si possa realizzare senza un contributo sostanziale di investimenti pubblici?

Nella Comunicazione della Commisione Europea “Una tabella di marcia verso un’economia competitiva a basse emissioni di carbonio nel 2050”, si legge che saranno necessari investimenti “cospicui e sul lungo periodo” e che tale sforzo “corrisponde a un investimento annuo supplementare pari all’1.5% del PIL dell’UE. [...] Si tratterebbe quindi di tornare ai livelli di investimento precedenti la crisi economica.” Purtroppo non ci è dato di sapere come queste cifre sono state ottenute. In merito al finanziamento degli investimenti, poi, si legge:

Mobilitare il potenziale di investimento del settore privato e dei consumatori rappresenta una sfida importante. [...] Rimane quindi la questione cruciale di capire come la politica possa creare un contesto propizio a questo tipo di investimenti, in particolare mediante nuovi modelli di finanziamento. [...] Per ovviare ai rischi finanziari e ai problemi di liquidità iniziali è essenziale disporre di ulteriori meccanismi di finanziamento pubblico/privato. Grazie a strumenti innovativi quali fondi di rotazione, tassi di interesse preferenziali, regimi di garanzia, meccanismi di ripartizione del rischio e meccanismi misti, il finanziamento pubblico può mobilitare e orientare il finanziamento privato necessario, anche a livello delle PMI e dei consumatori, stimolando così, con risorse limitate, una moltitudine di finanziamenti del settore privato. La Banca Europea per gli Investimenti, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e i fondi ad hoc previsti dal prossimo quadro finanziario pluriennale dovrebbero dare un ulteriore contributo al finanziamento di tecnologie ad elevata efficienza energetica e a basse emissioni di carbonio.

La Commissione, dunque, riconosce un ruolo importante ai finanziamenti pubblici, ma non fornisce stime della loro entità [1]. Nella Comunicazione “Tabella di marcia per l’energia 2050”, sempre della Commissione, si legge altresì:

I rischi degli investimenti devono essere sostenuti dagli investitori privati, tranne quando esistano chiari motivi per giustificare il contrario. Alcuni investimenti nel sistema energetico hanno tuttavia natura di bene pubblico. Per questo, potrebbe essere garantito un certo sostegno a interventi innovativi (ad esempio, veicoli elettrici, tecnologie pulite). Un aumento e un affinamento dei finanziamenti erogati da istituti finanziari pubblici, quali la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) o la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) e il coinvolgimento del settore bancario commerciale negli Stati Membri potrebbero facilitare la transizione.

Gli investitori privati continueranno a occupare una posizione preponderante in un approccio alla politica energetica basato sul mercato. In futuro il ruolo delle imprese di pubblica utilità potrebbe cambiare in modo sostanziale, soprattutto per quanto concerne gli investimenti. Mentre in passato, le imprese di utilità pubblica erano in grado di realizzare da sole numerosi investimenti nella produzione di energia, questo sarà probabilmente più difficile in futura vista la portata delle esigenze in materia di investimenti e innovazione. È necessario coinvolgere nuovi investitori capaci di impegnarsi nel lungo termine. Gli investitori istituzionali potrebbero diventare gli attori principali nel finanziamento degli investimenti in campo energetico. Anche i consumatori avranno un ruolo più rilevante a condizione che abbiano accesso ai capitali a costi ragionevoli.

Finora in Europa i costi di mitigazione, cioè di riduzione delle emissioni, direttamente o indirettamente sono stati sostenuti in larghissima parte da famiglie e imprese, attraverso il mercato europeo dei diritti di emissione (EU Emission Trading Scheme), i sussidi alle rinnovabili e la tassazione dei beni energetici. Ancorchè sia necessario e giusto pagare di più l’energia, il cui prezzo dovrebbe riflettere anche le esternalità di produzione e consumo associate, fino a che punto si potrà continuare a scaricare i costi della transizione tecnologica direttamente sui bilanci di famiglie e imprese? La Commissione, come visto sopra, sostiene che opportune riforme normative e limitati finanziamenti pubblici possano mobilitare ingentissimi e sufficienti investimenti privati. E’ giustificato questo ottimismo? Difficile rispondere, ma credo sia lecito dubitarne. Di certo, poichè le future generazioni godono dei benefici (sotto forma di minori costi) degli investimenti fatti oggi per ridurre le emissioni, è giusto che anche quelle partecipino ai costi. La politica del clima non può che avere un approccio multigenerazionale. Anche in quest’ottica, pertanto, la proposta di Monti – sottrarre gli investimenti al vincolo del pareggio di bilancio – è tutta da appoggiare, come pure naturalmente quella di potenziare BEI e Fondi strutturali [2].


[1] La stessa cosa vale per un recente intervento di Nicholas Stern riportato sul blog della London School of Economics, il 28 maggio scorso (“By unleashing the low-carbon economy we can create jobs and reduce deficits and debts“).
[2] Sul blog di Nouriel Roubini, il 12 marzo scorso, Sergio Rossi e Harald Sander propongono il finanziamento di investimenti verdi in progetti europei, tipicamente infrastrutturali e di ricerca e sviluppo, attraverso l’emissione di Eurobonds (“Green growth after debt? Euroland needs a different golden rule”).

Thursday 9 August 2012

Quando i professori vengono bocciati

di Tommaso Oliviero
European University Institute

Da pochi giorni è terminato il primo round del test preliminare per l’accesso al TFA (tirocinio formativo attivo) a numero chiuso, promosso tramite decreto del ministero dell’istruzione dell’11 Novembre 2011. È ormai chiaro che il governo dei professori è grossolanamente scivolato sul terreno delle selezioni dei futuri insegnanti. Dopo 5 anni dall’avvio dell’ultimo ciclo di SSIS (scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario), che rappresenta il precedente sistema di selezione degli aspiranti insegnanti, le nuove prove del TFA si sono dimostrate inadatte e mal concepite.
Il ministero ha già ammesso la presenza di criticità, ma la conseguenza sostanziale è che si è persa un’ottima possibilità per guadagnare credibilità e per dare una iniezione di fiducia verso il tanto auspicato sistema del merito.

Procediamo con ordine. Per diventare titolari di cattedra e quindi insegnante di ruolo per l’istruzione di secondo livello (liceo e scuole medie) occorre avere l’abilitazione. Fino al 2007, l’abilitazione era ottenuta frequentando un corso universitario biennale, a pagamento, denominato SSIS. Una volta ottenuta l’abilitazione, si entrava nelle graduatorie provinciali, e, secondo la posizione in tale graduatoria (il cui punteggio si otteneva considerando esperienza d’insegnamento e i titoli) si procedeva con l’assegnazione della cattedra. Il ministro Gelmini, aveva abolito la SSIS e rielaborato un differente percorso d’inserimento. Nel nuovo sistema gli insegnanti saranno selezionati una volta ottenuta una laurea magistrale, a numero chiuso, specifica per la didattica (quando? Visto che questi corsi di laurea non sono stati ancora attivati). Gli sfortunati aspiranti docenti che hanno conseguito la laurea tra il 2007 e il 2012 hanno avuto la “possibilità” di ottenere l’abilitazione mediante il TFA.

Le prove per la SSIS erano elaborate dai singoli dipartimenti universitari che attivavano il corso di formazione, e consistevano in una prova scritta a quiz con eventuale prova orale; l’accesso al TFA prevede una prova preliminare selettiva a quiz uguale su tutto il territorio nazionale. Il numero di posti disponibili è stato attivato secondo il fabbisogno prospettico d’insegnanti di ogni settore disciplinare nella provincia cui l’università afferisce. I vincitori della prova preliminare sosterranno a settembre una duplice prova scritta-orale elaborata dal dipartimento di afferenza.
Le differenze sostanziali tra la SSIS e il TFA sono tre. La prima è che il TFA prevede un anno di corsi abbinati a esperienze “sul campo” presso le scuole, a seguito delle quali i candidati dovranno sostenere un esame per il conseguimento dell’abilitazione. La SSIS invece, a seguito di due anni di corso, prevedeva l’ottenimento dell’abilitazione. La seconda differenza riguarda la soglia di sbarramento; mentre per le SSIS, una volta stabilito il numero chiuso N di posti per l’accesso, a fronte della graduatoria finale di merito delle prove, erano dichiarati vincitori i primi N candidati, nel caso del TFA è stato inserito il criterio della soglia di punteggio, per cui al di sotto di tale valore i candidati vengono esclusi dalla graduatoria finale, anche se il numero di persone all’interno della soglia è inferiore al numero di posti a disposizione messi a concorso. La terza differenza sta nel fatto che, con il sistema di selezione del TFA, è ridotta la discrezionalità dei singoli atenei ed è garantita una sostanziale omogeneità di valutazione e selezione degli aspiranti professori. Ed eccoci al punctum dolens.

Primo punto. Le prove nazionali. I primi dati dimostrano un’inaspettata e apparentemente inspiegabile disparità nelle percentuali di ammessi rispetto al numero d’iscritti. Mentre in alcune province, il 50% dei candidati ha superato con successo la prova preliminare, in altre province, la percentuale cala al di sotto del 20%. Questo è avvenuto a parità di prova. Non abbiamo i dati sulla qualità dei candidati, ma l’evidenza è molto chiara. Da qualche parte i vigili hanno chiuso un occhio (o entrambi). Sostanzialmente, in alcuni atenei si è copiato.

Secondo punto. Le prove erano piene zeppe di errori. Talvolta la risposta data per giusta non era tale. Talvolta nessuna delle risposte del quiz era giusta. Talvolta la domanda era mal posta per cui era impossibile dare una risposta unica. Le prove sono piene di imprecisioni, più o meno gravi. La casistica è così varia che parlare di errore umano sarebbe ridicolo. D’altro canto, in taluni casi, il ministero ha annullato alcune domande dandole per buone a tutti i candidati. Questo modo di ovviare agli errori è sbagliato nel principio. Davanti al testo di una domanda scritta male, il candidato ha probabilmente impiegato del tempo per elaborare una risposta. Lo stesso accade se le possibili risposte ad una domanda non contemplano la risposta esatta. Ciò ha inevitabilmente abbassato il rendimento finale dei candidati che quindi partono con un forte handicap.

Terzo punto. La qualità delle prove. Le prove si sono dimostrate inadatte. La difficoltà e la discrezionalità delle singole domande era tale che in alcuni casi, la percentuale media degli ammessi è stata inferiore al 10% dei candidati. E questo su una media nazionale (è il caso della prova di filosofia). Erano gli studenti così impreparati? Noi crediamo di no. Anche perché sono stati riscontrati moltissimi casi in cui le domande erano state scopiazzate dalle prove dei precedenti cicli di SSIS. Per di più, come in precedenza spiegato, mentre la SSIS prevedeva un’unica prova scritta, la prova preliminare del TFA è stata solo la prima di una serie di tre prove. Quindi non solo le domande erano state copiate, ma anche in maniera scriteriata.

Il 5 agosto il ministero dell’istruzione ha comunicato delle scuse ufficiali ai candidati, nominando una commissione speciale che si occuperà di rimediare a questi errori. L’esito è atteso per il 20 agosto. A quanto pare dagli ultimi interventi, la soluzione prediletta sembra quella di annullare le domande con errori, dandole per buone a tutti i candidati. Se la soluzione dovesse essere questa, ci sembra a nostro avviso insufficiente e deludente.
Dinanzi ad una selezione caratterizzata da prove con domande scopiazzate, risposte sbagliate, ed evidenza di corruzione in certi atenei, il rimedio dovrebbe essere uno solo: l’annullamento e la ripetizione della prova.

Se i giovani candidati potessero giudicare il governo dei professori in relazione a questo episodio, il giudizio sarebbe indiscutibile: bocciati. Alla bocciatura dovrebbero seguire delle dimissioni da parte del ministro. Esse non solo non avverranno, ma i colpevoli di tale scempio rimarranno sicuramente impuniti.