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Sunday 29 January 2012

Riforma del Lavoro Per Chi?

di Martina Di Simplicio

A pochi giorni dalla presentazione del piano sul Lavoro della Ministra Fornero, si fa più accesa la discussione sui vari aspetti della presunta prossima riforma (che trovate presentata qui [1]), alcuni dei quali abbiamo trattato alla Fonderia negli scorsi mesi.

Qualche settimana fa, Stefano ha rilanciato sul blog le sue motivazioni a favore di una riforma tipo “contratto unico” da applicare a tutti i lavoratori futuri [2]. La necessità di una riforma che semplifichi l’attuale legislazione, rendendo più attrattivo e facile assumere per le imprese (quindi creando lavoro) e che rompa il sistema “duale” di lavoratori “garantiti” contro “precari” (per lo più giovani e donne) è largamente condivisa. Lo scontro sembra invece nascere quando si tratta di stabilire qual’è il livello di equilibrio ottimale tra flessibilità del mercato del lavoro, così che le imprese siano libere di rispondere ai flussi di domanda e offerta ma anche incentivate a “tenersi” e formare i propri lavoratori sul lungo termine (e così a innescare meccanismi di innovazione dei prodotti), e tutele dei lavoratori.

Non entro nella diatriba se il modello di contratto unico alla Boeri-Garibaldi o alla Ichino siano davvero lo strumento per estendere finalmente alcune tutele al mondo dei lavoratori precari, ma vi invito a leggere qui [3] il dubbio sollevato da alcuni che il modus operandi poco virtuoso di molti datori di lavoro pubblici e privati italiani porti invece a ridurre ancora di più le possibilità di stabilizzare la posizione di molti lavoratori che di fatto esercitano mansioni di tipo subordiato da anni (indice che di tale mansione c’è necessità continua) pur rimanendo “precari”. Il rischio sarebbe che, al contrario di quanto auspicato, questa riforma finisca semplicemente per moltiplicare all’infinito i nuovi contratti unici triennali di inserimento, che avrebbero sì tutele progressive ma nessuna garanzia all’uscita.

Torneremo a parlare di come diversi paesi europei stanno cercando di intervenire sugli ammortizzari sociali e su politiche del lavoro di fronte alla crisi nel nostro incontro di mercoledì, ospite Stefano Scarpetta, Deputy Director for Employment, Labour and Social Affairs dell’OCSE.

Vorrei adesso, invece, spostare l’asse del discorso, prendendo spunto da un articolo di Luciano Gallino uscito su Repubblica alcune settimane fa [4], da cui riprendo una domanda: perché di fronte alla crisi e alla necessità di creare lavoro, si pensa subito a come lavorare sul dettaglio della “flessibilità” invece di capire come reimpostare in maniera radicale il sistema produttivo italiano, come abbiamo mancato di fare dai tempi della fine della lira?

E allargo la domanda: perché di fronte a una crisi economica fingiamo di non vedere che questa mette in discussione le premesse stesse del nostro sistema economico, e il rapporto tra lavoro, produzione e guadagni? Perché vogliamo adeguare il nostro mercato del lavoro a un sistema dove metà del mondo gioca la competizione su costi di produzione bassi, senza tutele dei lavoratori, e un’altra parte produce guadagni da manovre finanziarie che non si reggono su alcuna variazione reale del prodotto/lavoro?

Perché non immaginare che nel lungo termine per uscire dalla crisi si potrebbe dover invece cambiare sistema? E quindi, ad esempio cominciare a pensare a riformare il lavoro non per rilanciare l’economia ma per migliorare la vita delle persone? Ad esempio, perché non mettere sul tavolo della contrattazione la flessibilità dei tempi di lavoro così da renderli compatibili con i tempi di una famiglia? Perché non riformare il lavoro a partire dalle necessità delle persone in una società dove i rapporti tra lavoro-tempo-guadagno-conoscenza sono cambiati, e poi capire come il sistema di impresa può rispondere a tale necessità. Mi direte che è un’utopia ma forse è un’utopia possible nel momento storico in cui un sistema va in crisi.

Quindi, tornando alle propste del governo, perché invece di parlare di riforma dei contratti prima – per curare l’emergenza –, formazione poi, e ammortizzatori sociali alla fine (vedi di nuovo le proposte del governo qui [1]) non ribaltare le priorità e creare un sistema che sostiene i cittadini a monte (vedi la proposta di un reddito di cittadinanza qui [5]), consentendo sia flessibilità quando c’è poco lavoro che formazione continua?

E magari alla lunga questo potrebbe anche sviluppare un’economia diversa.


[1] Lavoro, ecco il piano Fornero Contratti sfoltiti e protezioni più moderne
di Massimo Giannini, La Repubblica 29/01/12

[2] I soliti luoghi (poco) comuni del nostro mercato del lavoro
di Stefano Caria, Il Blog della Fonderia 10/01/12

[3] Contratti unici e capitale umano
di Chiara Saraceno, La Repubblica 23/01/12

[4] Licenziamenti falso problema
Di Luciano Gallino, La Repubblica 05/01/12

[5] Il Reddito di Cittadinanza: un’utopia possibile
di Emanuele Ferragina, Presentazione della Fonderia 30/01/11

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